mari e vulcani

Il navigare lento e silenzioso del gozzo montese

L’arte dell’andare a vela latina nelle acque flegree, alla scoperta delle antiche tecniche marinaresche e della storia del Monte di Procida.

di Claudio Morelli |

Antonio Pugliese è un tecnico di costruzione navale che gira il mondo per verificare gli spessori e la robustezza degli acciai delle imbarcazioni. Janara, invece è un intreccio di fasciame e ordinate di iroko, di gelso e di mogano: un piccolo gozzo a vela latina. Lascia alle spalle i frangiflutti del porto dell’Acquamorta, trainato dal vento leggero al traverso di Monte di Procida, ultimo promontorio dei golfi flegrei, prima delle coste sabbiose del Litorale Domitio. Uscendo dall’insenatura e portando lo sguardo a nord, si scorge uno scoglio di tufo, collegato alla terraferma da un ponticello marcito per l’abbandono. È l’isolotto di San Martino. A partire dal 1917, i siluri prodotti dalle industrie pesanti di Baia, dopo aver attraversato un tunnel di quasi un chilometro e mezzo, venivano testati da qui con lanci di prova verso le spiagge di Procida e di Cuma. Dopo il fallimento di numerosi collaudi, ci fu chi sospettò la manomissione intenzionale delle testate, ma le successive indagini rivelarono che si trattò solo della scorretta esecuzione delle procedure da parte dei tecnici. Con l’Armistizio del 1943, al sabotaggio ci pensarono le truppe tedesche in ritirata che fecero saltare in aria il pontile e la galleria. Non riuscirono a trafugare, però, i progetti dell’avveniristico sottomarino d’assalto Kammamurì, il cui prototipo fu realizzato in un capannone del Fusaro, sotto la guida dell’Ammiraglio Minisini, e intenzionalmente affondato a largo dell’arcipelago di Li Galli. Negli anni ‘60 l’isola fu data in concessione a don Mimì Esposito per quarant’anni e divenne uno stabilimento balneare e un’attrazione turistica, prima di tornare nella disponibilità del Comune nel 2014.

L’orizzonte è una miscela di nuvole grigie che raramente lascia spazio al sole. Quando accade, la superficie del mare si colora di verde scuro. L’assenza di foschia dà l’illusione che l’isola di Procida sia ancora più vicina. Antonio corregge di frequente il tiro della vela, con l’aiuto di Lorenzo, giovane archeologo di Bacoli che gli fa da secondo. «Nel mio lavoro passo la vita a controllare spessori di acciaio al millimetro, eppure trovare il centro velico, su queste imbarcazioni, è sempre una sfida». L’accento montese non tradisce le sue origini e, nonostante trascorra buona parte della vita a migliaia di chilometri da casa, non ha alcuna intenzione di lasciare l’approdo flegreo. È lui a occuparsi del restauro dei gozzi. Tutto cominciò nel 2006 con il recupero di una piccola barca in legno destinata alla demolizione. La varò, completamente rinnovata, due anni dopo, battezzandola con il nome di San Giuda Taddeo. Fu lo slancio che diede vita all’Associazione Vela Latina Monte di Procida, fondata proprio da lui e da Lorenzo Looz, assieme all’amico Antonio Gerardo Mancino. Il gruppo organizza numerosi trofei velici e il Palio Marinaro dell’Assunta, una gara a remi in cui competono equipaggi rappresentativi dei quartieri della cittadina; tiene, inoltre, corsi di vela e di arte marinaresca. Lo scopo è quello di recuperare la tradizione di questo antico modo di navigare e di riscoprire un territorio per anni spopolato dall’emigrazione verso gli Stati Uniti. Non è un caso che i montesi abbiano introdotto vari termini di derivazione anglofona nel linguaggio comune o che, in terra di mare, il piatto più conosciuto sia un panino ripieno di carne e scamorza chiamato cistecca.

Il gozzo naviga spedito di bolina e raramente è necessario riportare i remi in acqua per aiutarlo a ritrovare il vento. Furono Greci e Romani i primi a ripiegare le vele quadre portandole “al terzo”. Ne chiudevano un lembo per ottenere una forma più vicina a un triangolo, per risalire il vento. Tecniche e appunti che si ritrovano nella lettura della mitologia antica; opere, come l’Odissea o Giasone e gli Argonauti, che diffondevano il sapere nascondendolo tra le righe della narrativa. Erano gli antenati dei moderni portolani e dei manuali di navigazione.

Al rientro il cielo è ormai minaccioso e il soffiare del vento segue un ritmo irregolare. Antonio e Lorenzo iniziano ad ammainare la vela maestra, armata su un palo in abetella, di quelli che vengono usati per sostenere le luminarie nelle feste di paese. Guardando il promontorio si scorgono chiaramente le stratificazioni dei prodotti vulcanici che lo hanno ricoperto in decine di migliaia di anni. Il tramonto si perde alle spalle dell’Isola d’Ischia, in una soffice striscia blu e magenta. Rientrati in porto si procede vogando, i primi pescatori lasciano l’ormeggio per dedicarsi alla posa delle reti, poco più a largo. Il bar del porticciolo è già un viavai di aperitivi. «Abbiamo molti eventi in programma per i prossimi mesi» ripete continuamente Antonio, sorseggiando il caffè «e gli equipaggi non sono mai abbastanza»